Gabrio Gentilini - ph Manuel Scrima

Dal musical alla commedia, fino al recentissimo ritorno a teatro con The Boys In The Band. Moda e Style ha incontrato Gabrio Gentilini, in occasione del tour teatrale milanese, che ha visto l’opera americana debuttare in Italia per la prima volta e che si appresta a replicare il 27 giugno al PAC di Milano, in occasione della Pride Week.

L’attore forlivese  si racconta attraverso un’intervista ricca di spunti di riflessione, curiosità legate al suo ruolo e al futuro professionale.

Da Dirty Dancing a La Bisbetica Domata. Dopo una breve pausa artistica oggi ti ritroviamo a teatro con The Boys in The Band. Perché hai scelto di sposare questa nuova avventura?

Mi ha portato qui il progetto, perché mi piace molto il testo, lo trovo molto avvincente, una sfida attoriale molto bella. In realtà non ho scelto di stare via dal teatro, piuttosto di allontanarmi da un certo tipo di teatro perfomativo.

The Boys in the Band – ph Mario Mainino

Hai lasciato il mondo del musical per approdare a un’esperienza teatrale più immersiva…

In realtà per tutte le cose che faccio parto dallo stesso approccio. Fondamentalmente in questi anni è maturata in me l’urgenza della ricerca di un’autenticità, di una verità sempre più naturale, più vicina a raccontare le persone. Nel musical l’attore deve dare priorità alla parte performativa, formale, al contenitore, a ciò che lo spettatore vede e sente, alla precisione dei passi, delle note, degli spostamenti. E’ come trovarsi all’interno di un enorme orologio a cucù, in cui iniziavo a sentirmi stretto, nonostante ancora oggi ne trovi la bellezza e il fascino. Un po’ come il primo amore non si dimentica mai…

Quindi hai archiviato la parentesi musical…

Torno sempre volentieri a teatro a vedere i miei colleghi, però come artista ho bisogno di nutrirmi di quella fiamma che mi ha dato il coraggio fin da piccolo a seguire un percorso preciso, come lo studio della danza all’età di 14 anni, quando non sapevo ancora cosa sarei diventato. Avere approcciato la danza mi ha fatto sentire realizzato, perché sentivo di avere qualcosa di speciale che mi avrebbe consentito un giorno, attraverso quella fiamma, di fare determinate scelte, inclusa quella di lasciare la famiglia per seguire il mio percorso. Ecco, quella fiamma, quel fuoco si stava spegnendo, nonostante avessi un ruolo di privilegio in quel momento. Sentivo che dovevo andare oltre.

The Boys in the Band – ph Mario Mainino

Cosa è successo in quel periodo?

Mi sono posto delle domande. Mi sono chiesto cosa stessi cercando, perché mi stessi sentendo in quel modo, che motivo avevo di stare così? Allo stesso modo mi sono ascoltato e ho capito dove volevo andare. Ho sempre saputo dai primi anni di studio, che non avrei fatto solo musical nella vita, e sentivo che dovevo ancora studiare. Allora, ho realizzato un sogno, andare in America. Sogno che è stato possibile concretizzare anche grazie a una serie di circostanze fortunate. In quel periodo ho conosciuto e approfondito la tecnica di Meisner, che, grazie al supporto del mio insegnante newyorchese, sto cercando di portare in Italia, dando la possibilità a giovani attori di iniziare un percorso che dia loro gli stessi stimoli, le stesse prospettive e conoscenze che ho avuto io. La ricerca dell’autenticità è fondamentale, per coltivarla bene avevo capito che quel contesto era riduttivo, per quanto pieno di bellezza, però per me si trattava ormai di una bellezza formale. A me interessa raccontare una storia. Mi interessa più essere, che fare il protagonista, io voglio essere quella storia, quel personaggio, ma soprattutto essere me stesso.

Hai citato le circostanze favorevoli parlando della tua esperienza in America. Il tuo personaggio invece all’interno dell’opera dice più di una volta che “nulla accade per caso”. Tu cosa pensi realmente: nulla accade per caso o siamo noi un po’ gli attori del nostro destino?

Entrambe le cose. L’energia va dove noi la proiettiamo con l’immaginazione. E’ come se dicessi: non devo cadere, non devo cadere, non devo cadere. Se ti concentri sul fatto che stai cadendo e devi evitarlo, prima o poi cadrai. Quello che invece devi fare è concentrarti che devi stare dritto, devi camminare, devi essere forte. Ma a noi spesso ci insegnano a coltivare le proiezioni negative, quindi se la tua energia è veicolata in una direzione, alimenterà quella realtà. L’immaginazione è una chiave potentissima per noi come attori, tanto quanto esseri umani. Quindi nulla succede per caso.

The Boys in the Band – ph Mario Mainino

Parliamo di Donald, come vivi questo personaggio?

All’interno dell’opera osserviamo persone che hanno questioni irrisolte nei confronti di se stesse e della propria sessualità. Donald è uno dei pochi che ha avviato un percorso nell’accettazione di sé, non solo in qualità di essere umano. Inizia a capire che ci sono dettagli, dinamiche della sua infanzia che lo hanno bloccato a realizzarsi. Si trova in quell’appartamento come intimo amico di Michael, tant’è che lo vediamo nella scena iniziale e in quella finale. Con lui Michael riesce a rendersi parzialmente vulnerabile. Il ruolo di Donald è molto funzionale per la storia, ma soprattutto per Michael, funge da specchio se vogliamo, perché mentre da una parte abbiamo un uomo che ha il coraggio di guardarsi dentro, dall’altra abbiamo Michael che regge tutta la storia e ne manipola le dinamiche, proiettando i suoi mostri sui presenti. Inizia a prendersela con l’esterno piuttosto che avere il coraggio di accettare ciò che vive dentro di sé. Donald guarda con speranza al percorso che Michael vuole intraprendere, però con riluttanza alla fine un po’ si rassegna al suo procedere sempre all’autodistruzione. Cosa pensa Donald? Pensa realmente che potrebbe migliorare, con un po’ di impegno e voglia di cambiare, ma poi  la dinamica si ripete: appena Michael si guarda dentro e capisce di essere vulnerabile scansa subito gli amici con una battuta sarcastica o facendo il frivolo, diventando talvolta aggressivo.

The Boys in the Band – ph Mario Mainino

Quanto The Boys in the Band è presente nella nostra società, oggi?

Tutto, tanto. Aldilà del fatto che l’omosessualità è sempre più accettata, ma mai fino in fondo ancora. A prescindere dalle etichette che noi vogliamo dare a queste persone,  parliamo di esseri umani che vivono difficoltà simili e invece che aiutarsi si mettono gli uni contro gli altri. Questo a me colpisce molto. La società già fa di tutto per convincerci di essere fuori luogo, che per raggiungere gli obiettivi devi godere di certi privilegi o posizioni, quindi cosa viene fuori? Il gioco al massacro, invece di aiutarsi, ci si butta giù assieme. Per fortuna nella mia vita vedo ancora tanta speranza, esseri umani che si vogliono aiutare. Diciamo che è anche un po’ quello che accade alla fine tra i protagonisti di The Boys in The Band, che tornano a darsi la mano, salutandosi amichevolmente, però è un darsi la mano quasi a far finta di niente, senza guardarsi dentro. Prima la guerra e poi la tregua, non la pace. Un gioco al massacro che coinvolge un po’ tutti, che fa parte della natura umana… Quindi forse se Michael se la prende così tanto con Alan è perché ancora non accetta se stesso e di conseguenza non accetta che gli altri non accettino se stessi. Uno dei temi centrali di questo spettacolo è proprio l’incapacità dell’individuo di accettare il suo percorso, ma anche quello di giudicare quello altrui, finendo con l’accanirsi in maniera del tutto illogica. Pertanto mi domando: quando qualcuno o qualcosa mi da fastidio, mi annoia e capita quotidianamente, non è che forse appartiene a me quella cosa in qualche modo? Perché puntare il dito? C’è il famoso detto che quando punto il dito contro uno, ne hai tre contro di te, io credo che questo sia abbastanza vero. Questo ci insegna The Boys In The Band.

The Boys in the Band

Quali sono gli obiettivi che avete dopo la preview milanese?

L’idea è creare un adattamento per un palcoscenico. È bella l’idea di poter immergere il pubblico nella scena, come abbiamo fatto in occasione delle date milanesi, ma l’obiettivo è portarlo in tutta Italia con un allestimento teatrale. Credo sia un testo bellissimo e ci sono a mio avviso tutti i presupposti per pensare a un progetto di questo tipo.

La sensazione nel vedere questo spettacolo è che ci siano tante domande senza risposta, situazioni non chiare e non chiarite, quasi a volere che sia lo spettatore a crearsi una chiave di lettura…

Ci sono tante cose di quest’opera che non si sanno e stanno in mano se vogliamo alla nostra immaginare di spettatori e attori. Ad esempio, quando Harold prende l’ultimo regalo da parte di Michael, non dice cosa c’è scritto e non si capisce perché Michael voglia regalare una foto di sé stesso… Spetta a noi capire. Si capisce, ma non si sa altro in proposito, che Michael, Harold e Donald abbiano già fatto il gioco del telefono, perché decidono di non partecipare. Conoscono la strategia di Michael.  Harold stesso definisce il gioco del telefono, gioco della verità, gioco dell’assassino, dove le regole sono sempre le stesse con un unico obiettivo da parte di Michael: “annientare” uno dei presenti. In questo caso l’obiettivo di Michael è arrivare ad Alan. Ci sono tanti elementi che vengono lasciati in mano all’interpretazione, penso che questo sia il bello di quest’opera, perché non capisci come va a finire. Un gioco dove emergono le fragilità dei protagonisti, in primis di Michael che accusa Alan di ipocrisia, quando è lui il primo a esserlo.

Dove stai andando Gabrio?

Tornerò a Roma con la Bisbetica Domata, in attesa degli sviluppi relativi a The Boys In The Band e ad altri  progetti non ancora confermati. La mia direzione è essere sempre più integro a me stesso nelle scelte, di avere il coraggio di portarle avanti. La logica mi avrebbe portato a intraprendere un percorso diverso, ad accettare proposte  da diverse realtà, ma ciò che vorrei è dedicarmi al cinema, ma soprattutto riuscire ad andare verso ciò che sento giusto per me.

In bocca al lupo.

Viva il lupo!

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